LE CASE ASSOCIATE

  • Indirizzo: Associazione Mario Bertozzi ODV
    Via Massi n. 58
    47034 Forlimpopoli (FC)
    Tel. +39 335 6214622
  • Sito internet: sito internet
  • Contatti: @ @

Casa Bertozzi Centro d’Arte e Documentazione - Forlimpopoli (FC)

La casa, dei primi del novecento, è situata nel centro storico di Forlimpopoli, città Artusiana. Lo scultore Mario Bertozzi vi è nato e vissuto fino all’età di 92 anni. Dopo la sua morte nel 2020, si è pensato di trasformare la casa in una esposizione permanente delle sue opere. La casa è suddivisa in sette stanze. Le sale principali sono quelle dei “tori e gallotauri” e dei “nudi” con quattro figure bronzee a grandezza naturale.

Una stanza è rappresentata a studio, con strumenti e attrezzi che l’artista utilizzava per realizzare disegni e lavori di piccole dimensioni con la creta. Negli altri ambienti è possibile ammirare una selezione di opere del suo percorso artistico che comprende ottanta sculture, la maggior parte in bronzo, e sessanta di grafica. E’ presente un archivio che va dal 1946 ad oggi per documentarsi attraverso video e rassegna stampa sull’attività dell’artista.

Nella casa, infine, c’è un terrazzino, tanto caro allo scultore, dedicato all’organizzazione di incontri culturali nella stagione estiva. La cura di Casa Bertozzi è affidata all'Associazione Mario Bertozzi ODV.

Biografia:

Mario Bertozzi è nato a Forlimpopoli (FC) il 21 febbraio 1927.

Fin da giovanissimo avvertì prepotentemente la necessità di plasmare e dopo un periodo trascorso a Forlì sotto la guida dello scultore Giuseppe Casalini, dal 1943 al 1947 frequentò il liceo artistico di Bologna, avendo due insigni maestri: Cleto Tomba e Luciano Minguzzi.

La sua personalità emerge da quella scuola rapidamente che già nel 1947 il Comune di Forlimpopoli affida al Bertozzi, ancora studente, la realizzazione di un monumento, una statua raffigurante la Libertà.

Da allora con ardore, irruenza e schiettezza tutta romagnola, procede nella propria esperienza artistica, partecipando a numerose mostre di carattere nazionale e internazionale, conseguendo brillanti successi.

Sue opere scultoree e grafiche si trovano presso collezioni private e pubbliche in Italia e all’estero.

Sanguigno, estroverso, ma anche timido, lui stesso si definisce “L’ultimo Romagnolo”.

La scultura è stata per lui una vocazione, proprio per il suo potere di dare forma, di ricreare, di infondere un’anima alle sue sculture a cui imprime un tocco di indomita energia che le rende vive e frementi come i possenti Tori, i superbi Galli, e le raffigurazioni del Gallotauro, sua invenzione esclusiva, che unisce gli aspetti più eclatanti dei due animali.

Ma questo impetuoso aggredire la materia non gli impedisce di creare anche dolcissime forme morbide ed altamente poetiche come nudi e testine di bimbi.

Negli ultimi anni della sua vita ha indirizzato la sua creatività verso l’opera grafica con delle bellissime rappresentazioni quali Ai confini dell’Anima.

Nel 2018 ha voluto affrontare una nuova esperienza nata da un’idea geniale e realizzata attraverso il disegno, il tratteggio, il colore, ha illustrato, secondo la sua creatività, il libro “E se Pinocchio fosse nato a Forlimpopoli”, proprio per attestare il fortissimo legame che lo unisce alla sua terra, al suo paese.

Bertozzi ha sempre affermato: “Più di me parlano le mie opere, dove cerco con impeto di infondergli una parte di me stesso, raggiungendo la mia realtà”

Mario Bertozzi è scomparso a Forlì il 28 novembre 2020.

 
  • Indirizzo: Via Baccheretana, 306 Seano (Prato)
  • Orario: Per prenotare chiamare il 338635362
  • Sito internet: sito internet
  • Contatti: @

Casa Studio - Seano (Prato)

Quintilio all’anagrafe (Seano, 31 ottobre 1908 – Firenze, 9 novembre 1990) può essere considerata testo di eccellenza per lo studio dell'arte contemporanea del Novecento.
Acquistata dal Comune nel 2009; ospita dal 2016 la donazione fatta da parte degli eredi che si compone di 350 quadri e n. 852 sculture.
Nel pieno rispetto dell'edificio e dei suoi contenuti, costituisce un esempio unico di spazio dove in perfetta unità si riflettono l'intera esperienza artistica dell'autore e il suo itinerario di ricerca .

Nei diversi ambienti le opere, gli arredi e le suppellettili occupano gli spazi e gli identificano secondo la disposizione che l’artista stesso gli aveva dato e danno luogo ad un percorso intenso e ricco di suggestione che racconta il pensiero di questo straordinario protagonista dell’arte del Novecento italiano.

La casa studio  sita in Via Baccheretana 306 è, oggi,  il luogo che Quinto desiderava fosse: un luogo aperto ed inclusivo, nel  quale si continuano ad avvertire la presenza e la poetica dell’artista che della sua opera diceva: “Spesso mi accade di pensare alla mole di lavoro che ho fatto e che ho nelle mie stanze. Tutto quello che ho è il mio diario, forse il vero diario della mia vita. Certamente quello più vero e più segreto e di difficile lettura”.

La casa dialoga  e completa un percorso artistico e di ricerca continua  con il Parco Museo: assieme riflettono l’esperienza artistica ed umana del maestro e, compendio l’una dell’altro, costituiscono un complesso museale unico: testo d’eccellenza per lo studio della figura di Quinto.

Il Parco Museo, istituito ed inaugurato nel 1988, progettato su una superficie di 31.530 mq dall’architetto Ettore Chelazzi, concretizzò il desiderio dell’Amministrazione e dell’artista di realizzare un parco-museo per la gente.

Caratterizzato da 36 opere in bronzo che lo animano, costituisce una realtà unica, uno spazio alternativo, in cui l’arte e l’ambiente si fondono in piena armonia.

Fu inaugurato quando l'artista (nativo di Seano) era ancora in vita: morì difatti nel 1990, all'età di 82 anni. Inserito magnificamente nella suggestiva cornice naturale delle colline carmignanesi, in una verde spianata solcata da un ruscello posta all'estremità sud del paese, il Parco accoglie 36 sculture in bronzo dell'autore fuse da opere realizzate tra il 1931 e il 1988: un percorso ideale - tra scene agresti e di vita vissuta - dove fare due passi per ricrearsi nel corpo e nello spirito, ma anche oltre cinquant'anni di sintesi e di ricerca artistica. Ma anche un luogo con spazio per giochi dei ragazzi e per riunioni della cittadinanza, come l’Artista voleva che fosse.

Il Parco, come scrisse Chelazzi, è difatti il recupero a spazio urbano di "un campo da utilizzare comunitariamente", che ripropone "in distanza le colline, luoghi di lavoro e di cultura" e che concede "spazi per lo svago, l'esercizio fisico, il rapporto con l'arte".

Direttore Scientifico del “Museo Diffuso Quinto Martini” è la dottoressa Lucia Minunno.

Altre opere di Quinto si trovano in musei italiani ed internazionali. Tra gli altri, ad ospitare le opere di Martini è l’Hermitage di San Pietroburgo, in Russia, ed il Museo del Novecento a Firenze.


ICONA Sistema Museale Case della Memoria in ToscanaQuesta casa fa parte del Sistema Museale Case della Memoria in Toscana. Visita la pagina con le informazioni ed i video.

 

 
  • Indirizzo: Piazza della Rocca 40060 Dozza BO Tel: 0542678240
  • Orario: ORA SOLARE
    Da lunedì a sabato 10-13 e 14-18 domenica e festivi 10-19.30

    ORA LEGALE
    Da lunedì a sabato 10-13 e 14-19 domenica e festivi 10-19.30

    Aperture straordinarie per i gruppi su prenotazione
  • Sito internet: sito internet
  • Contatti: @

Museo della Rocca di Dozza - (Bo)

Lorenzo Campeggi è stato un cardinale, vescovo cattolico e diplomatico italiano al servizio dello Stato della Chiesa.
Nato a Milano il 7 novembre 1474 da Giovanni Zaccaria Campeggi e Dorotea Tebaldi, Lorenzo era primo di cinque fratelli. Studiò a Pavia e a Padova, per poi ottenere il dottorato in utroque iure a Bologna. Nel 1500 sposò Francesca Guastavillani, con cui ebbe cinque figli, tre maschi e due femmine. Rimasto vedovo nel 1510, decise di abbracciare la carriera ecclesiastica, divenendo uno dei più validi campioni della Chiesa cattolica di quel periodo. Nel 1511 Papa
Giulio II lo nominò uditore della Sacra Rota e, in seguito, gli affidò una missione estremamente importante: la nunziatura presso l’Imperatore Massimiliano I. Tornato in patria l’anno seguente, fu nominato Vescovo di Feltre ed ottenne delicati incarichi diplomatici che condusse con la prudenza e l’abilità che lo contraddistinguevano. Nel 1513 si recò per la seconda volta in Germania, dove rimase per ben quattro anni ottenendo così tanta stima presso l’imperatore
che Massimiliano I lo raccomandò al Papa per la dignità cardinalizia, cosa che Leone X accolse di buon grado nel 1517. In seguito, Lorenzo fu mandato in Inghilterra presso Enrico VIII: anche qui il Campeggi riuscì a conquistare il rispetto e la simpatia del sovrano inglese, che gli donò il Palazzo degli ambasciatori inglesi a Roma, seimila scudi d’oro, dieci cavalli stupendi, vasellame prezioso e, inoltre, lo fece nominare dal Papa Vescovo di Salisbury. Non pago di ciò, nel 1523 Enrico VIII lo nominò anche Cardinale protettore dell’Inghilterra.
Tornato a Roma in quell’anno, Lorenzo fu dichiarato Vescovo di Bologna e, nel gennaio del 1524, in qualità di legato per Germania, Ungheria e Boemia, compì un lungo viaggio diplomatico in varie città per tentare di arginare l’eresia luterana e promuovere la pacificazione religiosa. Nel 1527, durante il Sacco di Roma, Clemente VII delegò alcuni insigni cardinali, tra cui Lorenzo Campeggi, di trattare con gli invasori. Inoltre, l’anno successivo Lorenzo fu inviato nuovamente presso Enrico VIII dal Papa, con l’arduo compito di dissuadere il sovrano inglese dallo sciogliere il proprio matrimonio con Caterina d’Aragona in favore di Anna Bolena, impresa che non andò a buon fine malgrado i suoi valorosi sforzi di mediazione. Tornato in Italia, Lorenzo accolse Carlo V a Bologna, dove assistette insieme a Clemente VII alla cerimonia per la sua incoronazione, avvenuta il 24 febbraio del 1530 nella Basilica di San Petronio. In seguito, lo stesso Imperatore lo volle al suo fianco come legato pontificio alla Dieta di Augusta, la legazione più importante di tutta la vita del Campeggi. A causa delle sue precarie condizioni di salute, l’ormai ultrasessantenne Cardinale non intraprese più incarichi diplomatici, ma aprì nel 1538 il concilio ecumenico convocato a Vicenza. Tornato poi a Roma, vi morì il 19 luglio 1539.

ROCCA DI DOZZA
Adagiata sul crinale di una collina che domina la valle del fiume Sellustra e digrada dolcemente verso la via Emilia tra Imola e Bologna, Dozza è un piccolo borgo antico dalla storia millenaria e dall'impianto urbanistico medievale ancora ben conservato. Il centro storico di Dozza, con la caratteristica forma a fuso, è composto da stradine strette e variopinte che salgono verso l'alto fino alla Rocca. L'integrità dell'originale tessuto edilizio è stata salvaguardata e la stretta simbiosi tra la maestosa Rocca al culmine del paese e l'insediamento residenziale sottostante comunica l'armonia tra la natura e l'intervento dell'uomo.
La Rocca di Dozza, anche nota come Rocca Sforzesca di Dozza, è un edificio complesso dalla storia secolare, che dall'epoca della sua edificazione, collocabile intorno alla metà del XIII secolo, ha subito numerosi interventi di ampliamento e adeguamento funzionale, riconducibili a tre fasi principali, ancora ben visibili all'interno del percorso di visita del museo. La Rocca è stata abitata fino al 1960, anno in cui fu ceduta al Comune di Dozza che l'aprì al pubblico come casa-museo.

Il museo della Rocca è gestito dalla Fondazione Dozza Città d'Arte e dal 2006 è riconosciuto come “Museo di Qualità” dalla Regione Emilia-Romagna, Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali.

FORTEZZA MEDIEVALE E RINASCIMENTALE
La Rocca di Dozza fu costruita intorno al 1250 per volontà del Comune di Bologna e, in seguito, fu notevolmente modificata e ampliata per rispondere alle necessità e alle esigenze dei vari proprietari che si sono susseguiti. Nel corso del Medioevo, infatti, la posizione strategica al confine tra Bologna e la Romagna rese il castello di Dozza oggetto di forti contese tra Bologna e Imola, tra guelfi e ghibellini, tra le Signorie di Romagna e la Chiesa di Roma. Proprio a causa di queste vicissitudini, la Rocca fu interessata da numerose modifiche, distruzioni e ricostruzioni finché, alla fine del Quattrocento, non entrò a far parte dei domini dei Riario-Sforza. Prima il conte Girolamo, poi la contessa Caterina avviarono consistenti interventi di fortificazione, che trasformarono la Rocca in un vero e proprio fortilizio militare. L'attuale aspetto esterno della Rocca risale proprio al periodo sforzesco; servendosi di abili ed esperte maestranze, come ad esempio l'architetto militare Giorgio Marchesi, i Riario-Sforza fecero costruire i possenti torrioni arrotondati, il profondo fossato e l'ingresso laterale dotato di ponte levatoio. Queste fortificazioni consentiranno alla Rocca di resistere agli attacchi dei nemici negli anni a venire.

RESIDENZA RINASCIMENTALE
All'inizio del XVI secolo Dozza rientrò sotto il diretto controllo della Santa Sede e, in questa circostanza, comparvero sulla scena due importanti famiglie senatorie bolognesi, i Campeggi e i Malvezzi, che con alterne vicende deterranno la Rocca per oltre quattro secoli. Se l'attuale aspetto esterno della Rocca riporta alla mente il periodo medievale, lo stesso non si può dire per l'interno, dato che l'impianto del palazzo con cortili, atrio, androne, scale, nonché l'organizzazione del piano nobile, sono in gran parte riconducibili al periodo rinascimentale con la signoria dei Campeggi, poi Malvezzi-Campeggi. Infatti, intorno alla prima metà del Cinquecento il cardinale Lorenzo Campeggi, prestigioso diplomatico al servizio dei papi Giulio II, Leone X e Clemente VII, vantava cospicui crediti dalla camera apostolica che gli fruttarono, nel 1529, il feudo di Dozza. Così, tra il 1556 e il 1594 i conti Vincenzo, Annibale e Baldassarre Campeggi intrapresero massicci interventi di ristrutturazione allo scopo di trasformare la Rocca da fortezza a residenza nobiliare e sede di rappresentanza feudale.

RESIDENZA SETTECENTESCA
Con alterne vicende, nel corso del XVIII secolo si succedettero ulteriori trasformazioni e ampliamenti del palazzo-fortezza. Già durante il Seicento, il conte Tommaso Campeggi aveva ampliato la Sala Grande del primo piano, trasformando in modo significativo le volumetrie esterne e completando l'organizzazione del piano nobile. Gli inventari settecenteschi riferiscono di un palazzo già compiuto, contraddistinto da arredi e quadreria di grande pregio. Nel 1728, alla morte di Lorenzo Campeggi, ultimo maschio della casata, il feudo di Dozza passò per via ereditaria alla sorella Francesca Maria, moglie di Matteo Malvezzi, la quale trasferì i diritti feudali a quest'ultima famiglia. Il figlio di Francesca e Matteo, Emilio, fu il primo ad unificare il nome dei casati in Malvezzi-Campeggi, che abitarono nella Rocca di Dozza fino al 1960.

 
  • Indirizzo: Via Ghibellina 70 50122 Firenze Tel. 055-241752 Fax 055-241698
  • Orario: Dalle ore 10.00 alle ore 16.30 La vendita dei biglietti cessa mezz’ora prima della chiusura
    Chiuso il martedì e nelle seguenti festività:
    1° gennaio, domenica di Pasqua, 15 agosto, 25 dicembre
  • Sito internet: casabuonarroti.it
  • Contatti: contatti
  • Facilitazioni per i soci: biglietto ridotto

Casa Buonarroti - Firenze

Museo e monumento, luogo della memoria e della celebrazione del genio di Michelangelo, e insieme fastoso apparato barocco ed esposizione delle ricche collezioni d’arte della famiglia, la Casa Buonarroti è una delle più singolari occasioni di visita tra le realtà museali fiorentine e offre, in primo luogo, l’emozione di ammirare due celebri rilievi marmorei, capolavori della prima giovinezza di Michelangelo, la Madonna della scala, testimonianza intensa dello studio appassionato di Donatello, e la Battaglia dei centauri, segno eloquente di un amore mai sopito per l’arte classica.

Ma non meno significativo, per chi varca il portone del palazzo secentesco di via Ghibellina 70 a Firenze, è collegare le opere michelangiolesche con le vicende secolari della famiglia Buonarroti, che si è prodigata per ampliare la dimora, per abbellirla, per conservarvi preziose eredità culturali (tra cui l’importante Archivio e la Biblioteca), per raccogliervi rare collezioni d’arte: dipinti, sculture, maioliche, reperti archeologici distribuiti oggi nei due piani del Museo.

Disegni autografi di Michelangelo Buonarroti

Al piano nobile, una sala appositamente attrezzata espone a rotazione piccoli nuclei della Collezione di disegni autografi di Michelangelo di proprietà della Casa, costituita da duecentocinque preziosi fogli. Ne tracciamo rapidamente la storia. In un passo famoso della Vita di Michelangelo Giorgio Vasari racconta, a testimonianza del suo desiderio di perfezione,  che l’artista, prima di morire a Roma nel 1564, volle bruciare «gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti da man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto».

Per fortuna, non pochi disegni di Michelangelo erano rimasti a Firenze, presso la famiglia, alla data della sua morte, e altri ne recuperò a Roma il nipote Leonardo; il quale tuttavia, per esaudire i desideri collezionistici del duca di Toscana Cosimo I dei Medici gliene donò un buon numero, intorno al 1566, consegnando per di più nelle stesse mani la Madonna della scala, e quanto si trovava ancora nello studio di via Mozza, che l’artista aveva lasciato trent’anni prima, all’atto del suo trasferimento da Firenze a Roma.

Quando, più di cinquanta anni dopo la morte di Michelangelo, il suo pronipote, Michelangelo Buonarroti il Giovane, allestì soprattutto in memoria del grande antenato una serie di sale nella casa di famiglia, la Madonna della scala e parte dei disegni donati ai Medici gli furono restituiti dal granduca Cosimo II; e intanto il memore pronipote andava recuperando a caro prezzo, anche sul mercato romano, altri fogli autografi di Michelangelo.

La raccolta della famiglia Buonarroti era a questo punto la più cospicua collezione di fogli michelangioleschi del mondo; e tale rimane tuttora, con i suoi più che duecento pezzi, nonostante i gravi assalti subiti: impoverita, alla fine del Settecento, da una prima vendita che, ormai esule in Corsica, il rivoluzionario Filippo Buonarroti fece al pittore e collezionista francese Jean Baptiste Wicar, nell’ottobre del 1858 subì un’altra notevole riduzione, per i fogli venduti al British Museum dal cavalier Michelangelo Buonarroti. Pochi mesi prima era morto Cosimo Buonarroti, ultimo erede diretto della famiglia, e perciò proprietario anche della parte più consistente delle carte michelangiolesche, compresi i disegni, che lasciò per testamento al godimento pubblico, insieme al palazzo di Via Ghibellina e agli oggetti in esso contenuti.

A partire dal 1859, nella Casa Buonarroti divenuta museo, i preziosi disegni rimasero per lunghi anni esposti in cornici e bacheche: e bisognò giungere al 1960 perché potessero essere sottratti a una così irrazionale custodia. Ricoverati al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi e ivi restaurati, i disegni ritornarono alla Casa Buonarroti solo nel 1975. Attualmente, l’esposizione a rotazione dei preziosi fogli si svolge all’interno del Museo in osservanza della normativa di conservazione più aggiornata.

Il significato della Casa Buonarroti non si esaurisce però nella celebrazione di una figura eccezionale come quella di Michelangelo, anche se su di lui possiede ed espone opere e documentazioni rese più ricche dai doni che si sono aggiunti al patrimonio familiare e da pezzi concessi in deposito da musei fiorentini. Tra questi due famose opere michelangiolesche, il Modello ligneo per la facciata di San Lorenzo e l’emozionante Dio fluviale, grande modello preparatorio per una statua mai realizzata per la Sagrestia Nuova; e i due Noli me tangereNoli me tangere cinquecenteschi, derivati da un cartone perduto dell’artista.

L’idea della creazione di un fastoso edificio a gloria della famiglia e soprattutto del grande avo risale al già citato Michelangelo Buonarroti il Giovane, eminente figura di letterato e di organizzatore di cultura che, a partire dal 1612, per circa trent’anni fece lavorare all’interno del palazzo, e in special modo nella “Galleria” e nelle tre sale successive, i maggiori artisti allora operosi a Firenze, dall’Empoli al Passignano, da Artemisia Gentileschi a Pietro da Cortona, da Giovanni da San Giovanni a Francesco Furini e al giovane Jacopo Vignali. In queste sontuose sale Michelangelo il Giovane collocò i pezzi più preziosi della sua raccolta, molti dei quali fanno ancora parte del percorso museale: tra questi, la predella lignea con Storie di San Nicola, capolavoro di Giovanni di Francesco, seguace di Domenico Veneziano.

Casa Buonarroti e la ricerca

Nella vita di una istituzione che ha come scopo precipuo la ricerca, non è infine da dimenticare la scadenza annuale con cui si svolgono all’interno del Museo mostre su temi riguardanti il patrimonio culturale, artistico e di memorie della Casa Buonarroti, oltre che Michelangelo e il suo tempo: esposizioni che ormai da molti anni si sono guadagnate fama internazionale, oltre che per la preziosità dei prestiti e per l’originalità delle tematiche affrontate, anche per la validità scientifica dei cataloghi che le accompagnano.

Cliccando su questo link è possibile fare la visita virtuale al museo della casa fiorentina Buonarroti

 


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(Palermo)

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, duca di Palma e principe di Lampedusa, nasce il 23 dicembre 1896 a Palermo e muore il 23 luglio 1957 a Roma. Diviene scrittore solo nell’ultima parte della sua vita.

Nel 1932 sposa la baronessa baltica Alexandra Wolff von Stomersee, figlia della cantante da camera Alice Barbi, la quale aveva sposato, in seconde nozze, lo zio di Giuseppe, il senatore Pietro Tomasi, marchese della Torretta. Alexandra è stata studiosa di psicoanalisi e presidente della Società psicoanalitica italiana.

Dal 1953 Giuseppe comincia a frequentare, grazie alla sua amicizia con Pietro Emanuele “Bebbuzzo” Sgadari barone di Lo Monaco, un gruppo di giovani intellettuali, tra cui Francesco Orlando, Francesco Agnello e Gioacchino Lanza di Assaro: con quest’ultimo, lontano cugino, instaura un rapporto affettivo tale che lo porta, nel 1956, ad adottarlo, oltre che a prenderlo come modello per il personaggio di Tancredi nel suo celebre romanzo Il Gattopardo.

Il Gattopardo, unico romanzo da lui composto, viene pubblicato postumo da Feltrinelli nel novembre del 1958 su interessamento di Giorgio Bassani, dopo il rifiuto di Mondadori ed Einaudi. Diventato uno dei best-seller del secondo dopoguerra, vince nel 1959 il Premio Strega. Il romanzo è poi stato adattato nell'omonimo film del 1963, diretto da Luchino Visconti e interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.

Negli ultimi due anni della sua vita, oltre al Gattopardo, scrive anche i Ricordi d’infanzia, tre racconti, tra i quali il più celebre è La Sirena o Lighea, e raccoglie per i suoi giovani allievi una serie di lezioni sulla letteratura inglese e francese, successivamente pubblicati con il titolo Invito alle Lettere francesi del Cinquecento e Letteratura Inglese.

Tutte le sue opere sono state pubblicate postume. Giuseppe Tomasi non ha mai saputo che sarebbe diventato uno dei più celebri scrittori della letteratura internazionale.

Palazzo Lanza Tomasi

Palazzo Lanza Tomasi fu edificato tra la fine del 1600 e l'inizio del 1700 sulle casematte militari retrostanti le mura cinquecentesche della città di Palermo, nel cuore del quartiere Kalsa. Nel 1728 i Padri Teatini lo adibirono a Collegio imperiale. Il Collegio fu chiuso e nel 1768 fu acquistato dal Principe Giuseppe Amato di Galati. Nel 1849 il Palazzo fu acquistato dal Principe Giulio Fabrizio di Lampedusa con l'indennizzo versatogli dalla corona per l'espropriazione dell'isola di Lampedusa. Nel 1862 i De Pace, famiglia di armatori imparentati con i Florio, acquistarono metà del Palazzo. Nel 1948 Giuseppe Tomasi di Lampedusa ricomprerà la proprietà dai De Pace e vi vivrà fino alla morte (1957). Il figlio, Gioacchino Lanza Tomasi dei conti di Assaro e duca di Palma, adottato nel 1956 dal cugino Giuseppe Tomasi, ha riunificato la proprietà negli anni Sessanta e compiuto un completo restauro dell'edificio.

La biblioteca storica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa è rimasta intatta dall’epoca della sua morte.

Nella sala da ballo sono esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo, quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che non compare nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti delle Lezioni di Letteratura Francese e Inglese e de I Racconti, una prima stesura de La Sirena.

Nella sala dedicata alla famiglia Tomasi di Lampedusa sono esposti quadri, oggetti e documenti della famiglia dello scrittore, come il ritratto del Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, bisnonno dello scrittore, un astronomo dilettante, ed il modello per il protagonista de Il Gattopard. E ancora, i due schedari della biblioteca dello scrittore e i ritratti della famiglia Tasca Mastrogiovanni Filangeri di Cutò a cui apparteneva la madre dello scrittore.

 

 

(Milano)

Lungo il Naviglio Grande, a Milano, c’è l’antica chiesina di San Cristoforo e, quasi di fronte ad essa, il “Luogo della Cascata”, con un affascinante giardino lungo un corso d’acqua che, dal Naviglio, va all’Olona, formando una piccola cascata. Oltre all’ingresso da Via Andrea Ponti 1, è questo il luogo di accesso alla Fondazione Vittorio Mazzucconi.

Il grande architetto, pittore e filosofo di cui essa è stata lo studio per oltre trent’anni, ha così trasformato in un’opera poetica una vecchia discarica, così come aveva trasformato un rudere abbandonato nel suo studio precedente, la “Fornace degli Angioli”, ugualmente conosciutissimo e tuttavia ignorato quanto al messaggio spirituale a cui è dedicata tutta l’opera di Vittorio Mazzucconi. Non per nulla infatti essa non si è svolta a Milano, una città aliena dai suoi valori, ma in altre città, in gran parte all’estero, pur avendo il suo centro a Milano.

Un centro di ricerca interiore, a dir il vero, che Mazzucconi ha coltivato in sé indipendentemente dai luoghi in cui ha operato, anche se egli è stato portato a identificarsi in alcuni di essi, fra cui lo studio del “Luogo della Cascata”, ancora palpitante dell’attività creativa che si è svolta in esso e dei tanti seminari e altri contatti che si sono formati intorno, anche se rimane in sostanza l’eremo di un moderno monaco.   

Oltre al sito Internet che documenta questa attività, gli archivi della Fondazione raccolgono il contributo di Mazzucconi all’architettura, in particolare con il grande plastico del progetto della “Città Nascente” per il nuovo centro di Firenze, alla pittura con gli oltre 400 quadri del Maestro, e alla filosofia con i suoi 20 libri. Una ricerca solitaria a cui si accompagna la memoria dei libri del padre Ridolfo, scrittore, e dei quadri della sorella Fioretta, una grande pittrice purtroppo dimenticata.

 

 

(Capo Vaticano - Vibo Valentia)

Il luogo e lo scrittore: risonanze emotive e creative

Capo Vaticano, il luogo dell’anima di Giuseppe Berto, uomo e scrittore che qui in una risonanza emotiva e creativa entrava in contatto con il “suo Paradiso”. Capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”. Al di là di quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”. Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo.

Berto si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo. La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi. Davanti solo la maestà delle Eolie e “infinite visioni di mare”.

Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano. Qui, Berto costruì con le sue mani un suo piccolo “buen retiro” e – come affermava – “buttai la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”. Ne venne fuori “Il male oscuro” e la liberazione dalla nevrosi. Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì ad impostare, inizialmente, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”.

Con mastro Antonio Lo Torto, un vecchio che lavorava all’antica, costruì casette simili alle «pinnate dei contadini». Aprì un night inaugurato con una mostra dello scultore Reginaldo D’Agostino. Si diede da fare innaffiando piante, mostrando il panorama ai turisti, servendo bibite. Aprì pure un ristorante. “Aprivamo la sera – diceva – e mia sorella preparava da mangiare, mentre io facevo un po’ di tutto, anche il cameriere e il barman”. Contemporaneamente scriveva articoli sul turismo, opere leggere, e instaurava un rapporto affettuoso con gli abitanti del luogo. Ma intanto un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato. “Lo so, lo so che ormai debbo morire perché ho il cancro”, diceva. Nel volto il pallore della morte, con voce un tempo dolce, a volte strozzata dal pianto. Dopo un lungo soggiorno in una clinica di Innsbruck ed una vana convalescenza a Capo Vaticano, Giuseppe Berto si spense a Roma il primo novembre 1978. Come ultimo atto d’amore, aveva lasciato detto di farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie. Ma non fu possibile. Fu così seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente.

Giuseppe Berto nasce il 27 dicembre del 1914 a Mogliano Veneto (Treviso).

Il padre era un maresciallo dei carabinieri in congedo, la madre una negoziante di cappelli e ombrelli. Primo maschio di cinque figli, è convittore nel locale collegio dei Salesiani dove anni di studio durissimo segnano la sua adolescenza. A seguito, si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Dopo la laurea, insegna prima Latino e Storia in un Istituto Magistrale, poi Italiano e Storia in un Istituto Tecnico per Geometri, ma ben presto lascia l’insegnamento e si arruola nella Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale. Cade prigioniero il 13 maggio 1943 degli americani. È proprio durante la prigionia nel campo di internati in Texas che Berto inizia a scrivere.

Lì compone Le opere di Dio e Il cielo è rosso; quest’ultimo romanzo, pubblicato da Longanesi nel 1947, su segnalazione di Giovanni Comisso, diviene rapidamente un successo internazionale dopo aver vinto nel 1948 il Premio Firenze. Escono, poi, nel 1948 Le opere di Dio, e nel 1951 Il brigante.

Trasferitosi a Roma, si sposa con una ragazza romana, Manuela, dalla quale ha una figlia, Antonia. Comincia a lavorare per il cinema: in questo periodo escono nel 1955 Guerra in camicia nera e nel 1963 il volume di racconti Un podi successo.

Berto nel 1958 cade in una lunga nevrosi da angoscia, che lo perseguita per quasi un decennio. Ne uscirà dopo tre anni di analisi quando compone Il male oscuro, che vince contemporaneamente nel 1964 il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Si aggiungono poi il dramma Luomo e la sua morte (1963), La fantarca (1964) e il romanzo La cosa buffa (1966).

Nel 1971 scrive il pamphlet Modesta proposta per prevenire e il lavoro teatrale Anonimo veneziano, ripubblicato come romanzo nel 1976. Con la favola ecologica Oh, Serafina! vince nel 1974 il Premio Bancarella. Dal dramma La passione secondo noi stessi, Berto matura l’idea portante del suo ultimo libro La gloria del 1978.

 

 
  • Indirizzo: via del Pian de' Giullari 42, 50125 Firenze FI
  • Sito internet: Villa Galileo
  • Contatti:
  • Facilitazioni per i soci: IN ATTESA DI COMUNICAZIONI

Villa Galileo (Firenze)

Villa Il Gioiello si trova a Firenze nella zona di Arcetri e insieme al suo giardino racconta ancora oggi ai suoi visitatori gli studi scientifici, gli affetti familiari, le relazioni con gli allievi e la passione per le vigne di Galileo. 
Lo scienziato affittò la Villa nel 1631, spinto dalla figlia Virginia, monaca insieme alla sorella minore nel monastero di San Matteo, poco distante. Le figlie desideravano che il padre, ormai anziano, abitasse vicino. E, infatti, dalla finestra della stanza di Villa Il Gioiello che scelse come studio, Galileo poteva vedere la vigna del convento delle sue figlie. 

Parte di una tenuta denominata "il Gioiello", la Villa, dal 1920 Monumento Nazionale, appartiene al Demanio dello Stato, settore storico-artistico, in consegna all'Università degli Studi di Firenze che, attraverso il Sistema Museale di Ateneo, cura il mantenimento e la valorizzazione della Villa e del resede con l'appezzamento di terreno dove era l'orto galileiano. Restaurata nel 2006, la Villa ospita conferenze e seminari organizzati dai centri di ricerca e alta formazione di Arcetri, uniti dall'accordo denominato "Colle di Galileo".

villa il gioiello fi piccolaNell’ottobre del 2018, grazie a un progetto promosso da Fondazione CR Firenze e dal ‘Il Colle di Galileo’ con il supporto del Museo Galileo e dell’Accademia dei Georgofili è stato inaugurato un nuovo allestimento. Gli interventi si sono concentrati sulla ricostruzione e sull’arredo di alcuni ambienti significativi: lo studiolo, la cucina e la cantina. Nel primo, uno dei luoghi più suggestivi del complesso, il mobilio è autentico, del Seicento o del secolo precedente, scelto da antiquari guidati anche dall’inventario della villa redatto nei tempi successivi alla morte di Galileo.

Le cantine e la cucina erano locali intatti, ma totalmente privi di arredi. La loro ricostruzione, curata dall’Accademia dei Georgofili, si è basata su studi che hanno permesso di definire un’ipotesi verosimile del materiale e degli oggetti contenuti: le botti e il piccolo tino sono stati costruiti seguendo le tecniche di allora; altri contenitori sono oggetti di antiquariato. Fiaschi, brocche e bicchieri di vetro sono stati riprodotti attraverso i quadri dell’epoca, mentre un tavolo di legno e dei panchetti sono stati realizzati secondo stilemi tratti da rappresentazioni iconografiche coeve. 

 
 
  • Indirizzo: Via Beato Angelico, 15, 50014 Fiesole FI
  • Sito internet:
  • Contatti:
  • Facilitazioni per i soci: ANCORA CHIUSO

Villa "Il Roseto" (Fiesole)

Villa “Il Roseto” è un edificio degli anni Trenta del Novecento di modesto pregio architettonico, ma lo straordinario paesaggio nel quale è immersa e le personalità che l’hanno abitata, le conferiscono un indiscutibile valore aggiunto dal fascino particolare. Essa infatti è stata la casa-studio di Giovanni Michelucci, uno dei più grandi protagonisti dell’architettura moderna.

La storia di Villa “Il Roseto” inizia nel 1933, quando il pittore Baccio Maria Bacci, vende a Maria e Consuelo De Jevenois, due sorelle di nazionalità belga residenti a Fiesole, un piccolo appezzamento di terreno di forma allungata prospettante un viale privato della sua proprietà e un ulteriore fazzoletto di terra contiguo.

Si trattava di un lotto inadatto all’edificazione perché ripido, scosceso, esposto ai venti e alle intemperie, ma con uno dei punti di vista più belli sulla città di Firenze.

Neppure un mese dopo la vendita, l’ingegnere Gino Bartolini presenta al Comune di Fiesole l’istanza per la concessione edilizia della futura villa, la cui realizzazione fu tutt’altro che semplice. L’orografia del terreno e la necessità di realizzare un adeguato sbancamento per le fondamenta creò non pochi problemi al Bartolini il quale, poco più che trentenne, era probabilmente al suo primo incarico importante.

La Villa
La villa si sviluppa su tre livelli e si configura come una casa unifamiliare caratterizzata da ampi ambienti di rappresentanza corredati da funzionali spazi di servizio. L’ingresso principale consente l’accesso al secondo livello dell’abitazione, mentre il piano inferiore è raggiungibile anche dal giardino retrostante.

Al modesto esterno di gusto toscano, il cui unico tocco di estro si può ritrovare nelle grandi arcate vetrate della sala al piano seminterrato, corrispondono interni sobri e accoglienti. È probabile che proprio la semplicità degli ambienti interni, e la possibilità di personalizzarli secondo il proprio gusto, sia stata apprezzata da Michelucci, che per essi disegnò e fece realizzare elementi di arredo in legno fisso, quali librerie e soppalchi. Non mancano elementi caratterizzanti tipici della tradizione toscana come i soffitti con travi in legno a vista e il caminetto in pietra arenaria eseguito dallo scalpellino fiorentino Eugenio Cangioni.

Il Giardino
Purtroppo dello ‘schizzo sommario dei giardini visti in pianta’ inviato alle De Jevenois nell’aprile del 1934 non rimane traccia, ma appare credibile imputare per la sua estrema semplicità e linearità l’attuale sistema di percorsi paralleli allo stesso Bartolini, che come ingegnere civile non era un esperto nella progettazione dei giardini e quindi non avrebbe scelto soluzioni più ‘ardite’. Tale sistema dei percorsi consentiva inoltre di creare piccole aiuole allungate che ben si sarebbero prestate, anche per la loro esposizione, alla coltivazione delle rose.

Non si hanno ulteriori notizie su eventuali trasformazioni alla villa ed al giardino per gli anni che seguirono fino allo fine degli anni Cinquanta, quando Giovanni Michelucci e la moglie Eloisa Pacini si trasferirono al Roseto, con i buoni uffici di Baccio Maria Bacci amico dell’architetto fin dagli anni giovanili.

 
 
  • Indirizzo: Via Capoluogo, 1 52033 Caprese Michelangelo (AR) Tel: +39 0575 793776
  • Orario: Dal 1 aprile al 1 novembre e dal 26 dicembre al 6 gennaio: tutti i giorni ore 9.30-13 e 15-18.30 Dal 2 novembre al 24 dicembre e dal 7 gennaio al 31 marzo: sabato, domenica e festivi ore 10-13 e 15-17:30; dal lunedì al venerdì aperto su prenotazione per gruppi e scolaresche (chiamare con congruo anticipo)
  • Sito internet:
  • Contatti:
  • Facilitazioni per i soci: Sconto del 10% al museum shop

Casa natale – Caprese Michelangelo (Arezzo)

La Casa Natale di Michelangelo Buonarroti a Caprese Michelangelo (Arezzo), oggi sede di un museo dedicato, ha sede presso la rocca di Caprese Michelangelo ed è costituita da tre edifici principali: il Palazzo del Podestà, il Palazzo Clusini e la Corte Alta, oltre a un giardino con esposizione all'aperto racchiuso dentro la cinta muraria.
Il nucleo originario del museo, fondato nel 1875, ruota intorno al Palazzo del Podestà, edificio della prima metà del Quattrocento che fu residenza dei podestà fiorentini che qui si avvicendarono con carica annuale.
 
Tra questi podestà vi fu, nel 1474-1475, Ludovico di Leonardo Buonarroti, padre di Michelangelo: un documento di Ludovico, rinvenuto nel 1875 presso l'Archivio della Casa Buonarroti a Firenze, attesta la nascita del figlio Michelangelo a Caprese il 6 marzo 1475 (1474 secondo l'antico uso fiorentino) e ne testimonia anche il battesimo avvenuto due giorni dopo presso la vicina chiesa di San Giovanni Battista. Il Palazzo del Podestà è quindi considerato il luogo dove nacque il sommo artista, secondogenito di Ludovico e Francesca di Neri del Miniato del Sera.
Il primo nucleo del Museo nacque nel 1875 proprio all’interno del Palazzo del Podestà. Qui e nella Corte Alta è conservata una collezione permanente di scultura, composta da una considerevole collezione di statuaria da Michelangelo e una parte relativa ad autori del XIX e XX secolo, prevalentemente italiani. Il museo custodisce inoltre, al primo piano della Casa natale, il trittico “Madonna con Bambino tra i Santi Martino, Benedetto, Romualdo e Michele Arcangelo” di Giuliano Amidei (tempera su tavola, 1484 ca.), proveniente dall’antica abbazia di San Martino a Tifi. Al piano terra di Palazzo Clusini è conservata anche l’antica campana del castello (datata 1561).

ICONA Sistema Museale Case della Memoria in ToscanaQuesta casa fa parte del Sistema Museale Case della Memoria in Toscana. Visita la pagina con le informazioni ed i video.

 

 
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