Le Case Associate

Berto Giuseppe

(Capo Vaticano - Vibo Valentia)

Il luogo e lo scrittore: risonanze emotive e creative

Capo Vaticano, il luogo dell’anima di Giuseppe Berto, uomo e scrittore che qui in una risonanza emotiva e creativa entrava in contatto con il “suo Paradiso”. Capitò in questo posto per caso, come egli stesso diceva “quando ancora i contadini portavano le mucche e i maiali a fare il bagno, quando l’emigrazione incominciava a farsi esodo. Per loro quel mare, ora tanto decantato, quelle spiagge, quei declivi pieni di ginestre e fichi d’India, quelle fantastiche rocce, tanta ricchezza naturale insomma, significava solo fatica, fame”. Al di là di quell’orizzonte ricamato dalle isole Elie: Stromboli, Vulcano, Panarea, Alicudi, Filicudi, c’era soltanto un sogno: il “cammino della speranza”. Per Giuseppe Berto, invece, perseguitato dalla nevrosi, Capo Vaticano fu l’approdo.

Berto si trasformò in una specie di agrimensore della psiche e scelse un luogo isolato, a picco sulle rocce. Il lembo estremo del belvedere ventoso in cima allo strapiombo di Capo Vaticano. Era il fatale promontorio dei vaticini custodito da un oracolo. La sibilla che gli antichi e i naviganti dei tempi omerici consultavano prima di affrontare Scilla e Cariddi. Davanti solo la maestà delle Eolie e “infinite visioni di mare”.

Da Nicola La Sorba, un contadino del luogo, per una manciata di lenticchie comprò metà della punta di Capo Vaticano. Qui, Berto costruì con le sue mani un suo piccolo “buen retiro” e – come affermava – “buttai la storia della mia malattia. Lavorai qua fra le pietre scrivendo una cartella dopo l’altra, con il rischio di bloccarmi fino alla fine”. Ne venne fuori “Il male oscuro” e la liberazione dalla nevrosi. Come scrittore nella bellezza di questo luogo riuscì a realizzarsi, mentre non riuscì ad impostare, inizialmente, un rapporto con la gente del posto che definitiva diversa dalla “sua gente”.

Con mastro Antonio Lo Torto, un vecchio che lavorava all’antica, costruì casette simili alle «pinnate dei contadini». Aprì un night inaugurato con una mostra dello scultore Reginaldo D’Agostino. Si diede da fare innaffiando piante, mostrando il panorama ai turisti, servendo bibite. Aprì pure un ristorante. “Aprivamo la sera – diceva – e mia sorella preparava da mangiare, mentre io facevo un po’ di tutto, anche il cameriere e il barman”. Contemporaneamente scriveva articoli sul turismo, opere leggere, e instaurava un rapporto affettuoso con gli abitanti del luogo. Ma intanto un male non più oscuro lo sospingeva verso la morte. Pochi giorni prima di morire, dal luogo di cura, ritornò a Capo Vaticano, salutò gli amici, si fermò davanti ai luoghi che aveva tanto amato. “Lo so, lo so che ormai debbo morire perché ho il cancro”, diceva. Nel volto il pallore della morte, con voce un tempo dolce, a volte strozzata dal pianto. Dopo un lungo soggiorno in una clinica di Innsbruck ed una vana convalescenza a Capo Vaticano, Giuseppe Berto si spense a Roma il primo novembre 1978. Come ultimo atto d’amore, aveva lasciato detto di farsi seppellire come un vecchio aedo omerico sotto le radici di un olivo millenario della sua casa, sul promontorio degli oracoli. Anche da morto voleva restare davanti allo spettacolo del suo paradiso a picco sul Tirreno per riguardare per sempre le luci sul mare, le magiche isole Eolie. Ma non fu possibile. Fu così seppellito nel cimitero del luogo in mezzo alla gente comune, in mezzo alla sua gente.

Giuseppe Berto nasce il 27 dicembre del 1914 a Mogliano Veneto (Treviso).

Il padre era un maresciallo dei carabinieri in congedo, la madre una negoziante di cappelli e ombrelli. Primo maschio di cinque figli, è convittore nel locale collegio dei Salesiani dove anni di studio durissimo segnano la sua adolescenza. A seguito, si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università di Padova. Dopo la laurea, insegna prima Latino e Storia in un Istituto Magistrale, poi Italiano e Storia in un Istituto Tecnico per Geometri, ma ben presto lascia l’insegnamento e si arruola nella Milizia volontaria per la Sicurezza Nazionale. Cade prigioniero il 13 maggio 1943 degli americani. È proprio durante la prigionia nel campo di internati in Texas che Berto inizia a scrivere.

Lì compone Le opere di Dio e Il cielo è rosso; quest’ultimo romanzo, pubblicato da Longanesi nel 1947, su segnalazione di Giovanni Comisso, diviene rapidamente un successo internazionale dopo aver vinto nel 1948 il Premio Firenze. Escono, poi, nel 1948 Le opere di Dio, e nel 1951 Il brigante.

Trasferitosi a Roma, si sposa con una ragazza romana, Manuela, dalla quale ha una figlia, Antonia. Comincia a lavorare per il cinema: in questo periodo escono nel 1955 Guerra in camicia nera e nel 1963 il volume di racconti Un podi successo.

Berto nel 1958 cade in una lunga nevrosi da angoscia, che lo perseguita per quasi un decennio. Ne uscirà dopo tre anni di analisi quando compone Il male oscuro, che vince contemporaneamente nel 1964 il Premio Viareggio e il Premio Campiello. Si aggiungono poi il dramma Luomo e la sua morte (1963), La fantarca (1964) e il romanzo La cosa buffa (1966).

Nel 1971 scrive il pamphlet Modesta proposta per prevenire e il lavoro teatrale Anonimo veneziano, ripubblicato come romanzo nel 1976. Con la favola ecologica Oh, Serafina! vince nel 1974 il Premio Bancarella. Dal dramma La passione secondo noi stessi, Berto matura l’idea portante del suo ultimo libro La gloria del 1978.

 

 
Image
Image
Image